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ARTICOLO TRATTO DA "IL CITTADINO" DEL  24/07/2010 - Attilio Sampellegrini gestiva un bar, ma vinse il richiamo dei campi
 

insediamenti rurali del lodigiano - 176 Le vicende, le memorie, le figure di un mondo contadino scomparso
La corte dell’oste diventato agricoltore
Attilio Sampellegrini gestiva un bar, ma vinse il richiamo dei campi
 

L’agricoltore Domenico Sampellegrini il mare l’ha vissuto, per la prima volta, soltanto l’anno scorso, dopo una vita trascorsa nei campi e nelle stalle. E gli è piaciuto. Il figlio Attilio mi racconta che dovevano costringerlo ad andare via perchè lui sarebbe rimasto per ore, seduto su una panchina del lungomare di Noli, ad ascoltare il continuo sciabordio di lenti marosi infrangersi sui sassi e tornare verso i fondali.Il signor Domenico ha capito che il mare, come la campagna, è parafrasi della vita: similmente alla terra, toglie e dà. Così, nel suo sguardo fiero, timido ma fermo, vivace nel colore verde degli occhi anche nei momenti di peggiore stanchezza, Domenico Sampellegrini, davanti a quella distesa d’acqua marina, si è sentito simile ad un vecchio marinaio; lui stesso ha saputo rinchiudere le amarezze della vita dentro alla stiva ed ha continuato il suo viaggio, senza arrendersi, inghiottendo i magoni nei momenti peggiori, e cercando nuovi orizzonti.un tragico eventoIl ceppo originario dei suo avi era originario della provincia di Cremona; intorno agli anni Venti del secolo Novecento, suo nonno, Angelo Sampellegrini, si spostò a Cavenago d’Adda. Egli, coadiuvato da nove figli, iniziò a condurre due corti: la cascina Delizie e la cascina Cantarane. I Sampellegrini sembravano volere mettere profonde radici nel Lodigiano, ma nel 1932 un tragico evento spezzò la serenità della famiglia. Angelo, collaborato da alcuni famigliari, si stava adoperando per far scendere un carro dal granaio. Era uno di quei veicoli antichi, con un solo asse centrale, una vera e propria asta, da attaccare al giogo dei buoi: Angelo stava dal lato inferiore, i ragazzi in alto. Il peso del carro fu probabilmente sottovaluto, scappò di mano a chi doveva reggerlo e schiacciò il povero Attilio: l’asse gli si conficcò nella pancia, trapassandolo. In famiglia rimasero profondamente scossi da questo evento: i ragazzi proseguirono la conduzione delle due affittanze sino al 1936, poi alcuni di loro, pur rimanendo in agricoltura, preferirono spostarsi, recidendo in legame con il Lodigiano e andando a vivere altrove.A Cavenago d’Adda rimasero soltanto il primogenito, che si chiamava Virginio, ed un altro figlio, il cui nome era Attilio.Virginio fu lo storico fondatore della trattoria “La Barca”, ancora gestita da un ramo della famiglia, in quanto una Sampellegrini ha sposato Agostino Bonizzoni, oggi l’assoluto artefice del rinomato locale ed ideatore di iniziative gastronomiche di successo, come quella del “Salamino d’oro”, apprezzato evento conosciuto in tutta la Lombardia.oste e agricoltoreAttilio, nato nel 1907, invece, dopo avere sposato nel 1940 Suprema Vailati, i cui genitori conducevano la cascina Rivoltelle, sempre in quel di Cavenago d’Adda, si spostò alla cascina Guastimone di Bertonico. Qui svolse l’attività di agente per conto dell’agricoltore Francesco Vailati, a quel tempo affittuario di quella corte.Ma Attilio era un uomo molto particolare: di carattere brusco, sapeva essere tanto rapido quanto impulsivo nelle decisioni, e spesse volte si trovava a cambiare idea sulle cose da fare. Dopo tre anni alla cascina Guastimone, infatti, pur essendo molto apprezzato nel suo lavoro, cambiò completamente genere di attività: tornò a Cavenago d’Adda ed avviò un’osteria, vicino al comune; ma quasi immediatamente ebbe nostalgia della campagna: ed allora affidò l’esercizio pubblico alla moglie Suprema, mentre lui prese in affitto alcuni terreni. La sera, poi, arrivava anche lui all’osteria, ed era quello che, a notte fonda, chiudeva bottega.Ma neppure questo genere di attività placò la sua smania di cambiare mestiere. E nel 1956 si trasferì a Lodi, in via Marsala, dove aprì o rilevò un bar con annessa tabaccheria. Non era passato un mese che già rimpiangeva l’osteria, la buona terra di Cavenago d’Adda, l’agricoltura, e tutto il resto. Dovette attendere due anni prima di riuscire a cedere l’esercizio, ed alla prima occasione utile mollò tutto e si trasferì alla cascina Porchirola III, nota pure come cascina San Francesco, a Graffignana, divenendo l’affittuario degli eredi Lombardi di Sant’Angelo Lodigiano, ancora oggi proprietari della possessione. Attilio Sampellegrini rivelò l’affittanza di Francesco Zanolli, ormai anziano, e che intendeva cessare l’attività agricola.una stalla ripopolataGià da un pezzo Zanolli aveva ceduto le bovine e Attilio Sampellegrini si impegnò, come prima cosa, a ripopolare la stalla della corte: acquistò così sedici vitelline. La singolarità è che lui aveva già cinquant’anni, un’età in cui non ci si improvvisa allevatori, ma durante il periodo dell’infanzia, sotto la guida della buonanima del padre, aveva ben imparato il mestiere, e nel corso degli anni non aveva dimenticato le lezioni apprese.Egli stesso fu un buon maestro per i tre suoi figli, che lo affiancarono nel lavoro: Angelo, Domenico ed Ernesto. Per un quinquennio i ragazzi lavorarono con il padre, poi il primogenito cambiò mestiere: divenne prestinaio e si trasferì inizialmente a Miradolo Terme, ma poi rientrò a Graffignana e tornò ad interessarsi dell’azienda di famiglia; il terzogenito, invece, dopo aver completato gli studi d’obbligò, andò a lavorare come fattorino in un’azienda di Milano.Così in cascina rimase soltanto Domenico. Il lavoro da svolgere era abnorme: le bovine erano arrivate a ventotto per la mungitura, più altrettante per l’allevamento. E soltanto quando Domenico fu chiamato a indossare la divisa dell’Esercito, a Treviso, fu assunto un mungitore; si trattava di Paolo Ardemagni, originario di Graffignana, che rimase alla cascina Porchirola anche dopo il ritorno di Domenico.un’altra disgraziaPurtroppo nel 1968 la famiglia Sampellegrini fu colpita da un’altra tragedia: anche Attilio, come il suo genitore buonanima, rimase vittima di un incidente sul lavoro, ucciso dalla mietitrebbia sfuggita al suo controllo. Attilio aveva cinquantanove anni.I figli rimasero sotto choc, anche perché la famiglia sembrava proprio perseguitata dal destino. Ed inoltre Attilio era la vera anima della cascina, mentre i ragazzi, sino a quel tempo, avevano più che altro mantenuto un ruolo esecutivo. L’anno dopo Angelo e Domenico Sampellegrini si confrontarono e decisero di abbandonare la stalla per dedicarsi alla monocoltura, con la coltivazione del mais.L’idea, però, non aveva del tutto convinto Domenico, tanto che nel 1972 decise di tornare a puntare sulla stalla, separando dal fratello gli indirizzi dell’azienda agricola: lui avrebbe pensato alle bestie, e Angelo alla terra. Grazie agli uffici di Giancarlo Bersani, un commerciante di Orio Litta, Domenico Sampellegrini acquistò 19 bovine dal signor Dordoni, conosciuto nel territorio per essere stato, per lunghi decenni, lo storico affittuario della cascina Bossa di Cornegliano Laudense. Nel 1971, intanto, Domenico sposò Maria Rosa Bardoni di Graffignana: figlia di un operaio, sarta di mestiere proprio, seppe inserirsi nella vita agricola e nel tempo crescere quattro figli, che oggi danno ai genitori grandi soddisfazioni e gioia.In azienda, cominciarono ad essere ampliati i numeri: la stalla contò sino a cento capi in mungitura. Domenico si rasserenò perché sembrava che i conti finalmente quadrassero. Ma il destino poteva mai rinunciare a prendersi altra vita dai Sampellegrini? Ci provò ancora una volta ad uccidere, e un nuovo incidente sul lavoro, nel 1992, stava per far perdere la vita allo stesso Domenico: il cardano di un trattore cominciò a risucchiarlo; prima la mano, poi il braccio, e rivoltandolo stava per divorargli il tronco. Nella disgrazia, la fortuna volle fosse presente il fratello Angelo nei pressi, che riuscì a mantenersi freddo, a salire sul mezzo, a girare l’interruttore e a spegnere quella macchina divoratrice, un’apparecchiatura che sadicamente mostrava il suo volto feroce.più forte della sfortunaDomenico rimase tra la vita e la morte, poi il destino si rabbonì, chè ai Sampellegrini aveva già levato tanto, e, pur senza un braccio, il soffio della vita alitò ancora su di lui. Quando lasciò l’ospedale e fece rientro in cascina, Domenico andò in stalla ed osservò le sue bovine: senza braccio non poteva più mungere; i figli erano ancora troppo piccoli; e sapeva che il fratello Angelo non aveva mai amato il bestiame.Rimase un minuto sovrappensiero. Sospirò. E si scoprì più forte di quanto non avesse mai pensato: rinunciò alla produzione del latte, ma non alle bovine, vendendo quelle in mungitura, ed acquistando capi per l’allevamento. Il suo attaccamento per gli animali è fortissimo: le bovine le vende quando sono gravide, ma tempo fa è nata una vitellina; ha pensato di cedere anche quella; ma il prezzo che gli viene offerto non lo ritiene mai equo: quel nuovo arrivo suggella il cerchio della vita, e lui si è particolarmente legato alla piccola bovina.Il resto sono tante esperienze di vita, che Domenico Sampellegrini racchiude in frasi ricche d’umanità: «Le macchine agricole non sono quasi mai belve impazzite, ormai vengono realizzati strumenti di assoluta precisione e sicurezza; è l’uomo che deve stare attento e concentrato, quando lavora. La mattina che ebbi l’incidente ero frastornato di mio. Ho pagato un prezzo salatissimo. Forse quel giorno, sapendo di non essere sereno, non dovevo lavorare.»Poi, rivolge un pensiero alla propria Itaca, il luogo della sue origini: «Quando torno a Cavenago d’Adda, mi si allarga il cuore: mi sento proprio felice. Ho vissuto lì solo i primi anni dell’infanzia, ma ho con quel paese un legame davvero speciale. Spesso mi tornano alla memoria tutte le persone che lì incontrai da bambino. Come la mia maestra Enrica Ferrari: era molto severa, ma oltre alle nozioni scolastiche, sapeva insegnarci a vivere, ci dava una stile. E quando ebbi l’infortunio, io che ero stato suo alunno quarant’anni prima, ricevetti molte sue telefonate, perché ci teneva tantissimo a sincerarsi delle mie condizioni. Cavenago d’Adda mi ha regalato anche questo: la gioia di coltivare, nel tempo, rapporti indimenticabili».Eugenio Lombardo